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Se fossi mafioso sarei antimafioso

Don La Torre è un prete “antimafia”.
Essere un “anti”, pure come qualificazione politica e, magari ecclesiastica o, ancor peggio, giudiziaria, non è cosa che non mi sembri la migliore delle presentazioni. Solo nei momenti di grandi ed ineluttabili scontri, di sopraffazione autoritaria, di guerra civile o quasi, essere “antiqualcosa” ha un significato accettabile, anzi, dovuto, al fine di escludere pericolosi equivoci. Ma, comunque, a nessuno può essere attribuita la “colpa” di una qualifica che non si sia data da sé.


Don La Torre l’ha avuta, anzitutto, dalla tragedia dell’uccisione del Padre, Pio La Torre, vittima della mafia. E’ stato collaboratore di Don Ciotti, ma è trascorso oramai del tempo dalla loro clamorosa rottura. Non mi risulta che i loro buoni rapporti si siano ristabiliti. E si capisce, se si pensa, ad esempio, alla frase pronunziata da Don La Torre giorni fa “se fossi mafioso, sarei antimafioso”, che sintetizza mirabilmente ciò che sta accadendo in Sicilia. O, se vogliamo del manifestarsi in modo ineludibile di ciò che da molti anni già si avvertiva dalle intelligenze più acute e disincantate. In Sicilia e altrove.
Già molti decenni fa Leonardo Sciascia scriveva (così più o meno) che “il gran parlare che si fa oggi della mafia rende ad essa un servizio quale una volta le veniva reso dall’ignorarla”.
Il gran parlare dell’”Antimafia”, dei “suoi” magistrati, prefetti, uomini politici (si fa per dire) affaristi, giornalisti, preti, registi (si fa per dire) di “docufilm”, sociologi e mafiologhi, ha fatto più male che bene, e non solo alla necessaria reazione al fenomeno mafioso.
Oggi quell’”Antimafia” è in crisi. Lo dimostra non tanto la schiettezza di Don La Torre, quanto l’ambiguità di Don Ciotti, che parla di fenomeni “marginali” inquinanti l’antimafia.
Credo, però, che la rottura del silenzio su certi scandali dell’affarismo antimafioso sia solo la punta del classico iceberg.
Da anni la gente di Sicilia, che ha sempre salutato positivamente (checché se ne dica) l’alleggerimento del peso della mafia nella vita sociale, politica ed economica dell’Isola, aveva cominciato a sentire come insopportabile un peso diverso ed opposto: quello dell’”Antimafia” e, ancor più generalmente e diffusamente, di quello che Sciascia chiamava “l’eterna arroganza della legge”.
Ma torniamo a Don La Torre ed al suo esplicito aforisma. La mafia che si camuffa da antimafia, l’antimafia che occupa gli spazi della sopraffazione e della prevaricazione lasciati vuoti dal volgere al declino di Cosa Nostra e di sue propaggini e settori è, in fondo lo specchio, se non la matrice, o, magari, la metafora (ancora Sciascia: “la Sicilia come metafora”) di un fenomeno politico che oggi occupa tutto lo spazio possibile in Italia: quello del “Renzismo”.
Ci sono molti che ragionano e si esprimono, in buona sostanza (a parte l’uso dell’indicativo invece del condizionale) come Don La Torre: “sono di Destra, per questo sono con il Partito Democratico, con Renzi”.
Una versione particolare, più moderna, del Gattopardismo. Che però (attenzione!!) non soddisfa le istanze più profonde che sono presenti tra la gente in Sicilia e altrove. Il Gattopardismo, per quanto tradizionalmente praticato, è sempre rimasto come una copertura, un espediente falso e alquanto spregevole.
Così il Renzismo. Non è solo respinto da brontoloni di una Sinistra tradizionalista ed immobilista di una Destra tra il moralismo e la diffidenza.
C’è una evidente, significativa, disperata riserva mentale in queste ambiguità. E nel profondo meno sondabile della gente c’è una mortificata approvazione di qualche sfuggente e rara chiarezza di fatti e situazioni che talora si avverta.
Può darsi che sia una mia impressione ingiustificata, ma mi pare che qualcosa si muova nel senso di dare solidarietà, comprensione, fiducia più a chi è stato colpito dalla violenza della “giustizia di lotta”, dall’”eterna arroganza della legge”, piuttosto che a chi ne è stato indenne, ricevendone una sorta di implicita e fragilissima “patente” di illibatezza. Questo mi suggerisce il fatto che, ad esempio, un Uomo colpito duramente dalla “giustizia antimafia”, strappato dalla posizione e dalla classe del potere in cui aveva avuto posizione eminente, come Totò Cuffaro, sta avendo in Sicilia ed altrove manifestazioni di solidarietà e di simpatia quando, esse in genere, in Sicilia (e altrove) si risolvono in richieste agli uomini politici di favori, che certamente oggi Cuffaro non può fare a nessuno. Una genuinità ed un’ampiezza che ritenevo impensabili.
Leggo poi, anche se non so quanto attendibili siano gli scritti, che Silvio Berlusconi, che è stato condannato, interdetto, scacciato dal Senato e, da allora, tradito ed abbandonato con crescente frequenza e manifesto intendimento di escluderlo totalmente, di farlo fuori dalla scena politica da seguaci e parassiti, avrebbe avuto, proprio in Sicilia, a Palermo, un successo di folla e di consensi quale forse non ebbe nei suoi anni più fortunati. Si direbbe che la sua credibilità sia aumentata. In Sicilia (“La Sicilia come metafora!!!”) la prova dello scontro come la violenza del potere togato, che egli, a capo del Governo e della Maggioranza non volle mai portare sul piano politico, ne faccia oggi, al paragone dei nani e degli avventurieri “antimafia”, un personaggio più degli altri meritevole di approvazione e di fiducia.
E’ così? Quale che possa essere il giudizio da esprimere in caso questo non fosse un mio errore totale, ciò comporterebbe una apertura ad una fondamentale rifondazione di valori, giudizi, adesioni. Uno spiraglio di luce che a qualcuno sembrerà pericoloso e malamente accettabile, ma che è, invece la ricerca difficile di una rinnovata moralità. C’è da sperarlo.
Mauro Mellini

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